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Razzismo e violenza negli stadi: il Governo faccia qualcosa

Abodi e Gravina hanno ragione, il Daspo non basta più. Ma oltre alle parole servono i fatti. E una rivoluzione culturale che ancora sembra lontana

tifosi stadio
tifosi stadio foto Lapresse

L’ultimo caso di razzismo nel calcio arriva dai campi di periferia. In provincia di Treviso, lo scorso week end, un arbitro di colore ha sospeso una partita perché qualcuno ha iniziato a insultarlo con epiteti razzisti. Una sola persona, a quanto pare. Ma sempre una di troppo. Il motivo? Avere assegnato un calcio di rigore per gli ospiti, quello dell’1-1 tra Bessica e Fossalunga. L’arbitro si chiama Mamady Cissé e ha 36 anni. Nella vita è impegnato nel sociale proprio per aiutare la sua Africa, attraverso un’associazione che gli permette di inviare cibo e vestiti nel suo Paese d’origine.

Di questi episodi, purtroppo, se ne vedono tanti in giro per l’Italia. Soprattutto nei dilettanti ma anche negli stadi il problema è sotto gli occhi di tutti nonostante gli sforzi che le istituzioni (sportive e non) portano avanti. La Lega Serie A lo fa da anni attraverso “Keep racism out”, che dal 2020-21 prevede un ricco piano di attività dedicate alla lotta contro il razzismo e tutte le discriminazioni. Ma il razzismo è una forma di violenza, forse la più becera che esiste, e come tutte le forme di violenza va abbattuta. Come? Con norme più dure, che puniscano severamente i colpevoli.

Le parole del ministro Abodi

Proprio nei giorni scorsi il tema della violenza è stato toccato dal ministro dello sport Andrea Abodi, che è intervenuto a margine della presentazione del “Report dell’osservatorio calciatori sotto tiro”, a cura dell’AIC, parlando dell’inefficacia del Daspo nel mondo del calcio. Alleluia, verrebbe da dire. Perché questa norma, che ufficialmente sta per “divieto di accesso a una manifestazione sportiva”, ed è disciplinata dall’art. 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401, e successive modifiche, non serve quasi a nulla. Lo ha confermato anche il numero uno della Figc, Gabriele Gravina. 

Il provvedimento di fatto vieta per un determinato periodo di tempo l’accesso alle manifestazioni sportive (quindi agli stadi) a tifosi e soggetti ritenuti pericolosi per l’ordine e la sicurezza pubblica. Ma non impedisce loro di seguire la squadra al di fuori degli impianti e creare il caos con ripetuti atti di violenza. come sottolineato dallo stesso Abodi: “Il Daspo non è sufficiente, non possiamo limitarci al fatto che dentro lo stadio succede qualcosa di meno grave. Dobbiamo fare in modo che lo sport sia portatore di valori positivi ed educativi. Questa misura è utile ma servono strumenti più efficaci. E soprattutto serve la certezza della pena”. Ecco il tema chiave: la certezza della pena.

L’esempio della Premier League

In Inghilterra e in altri Paesi europei chi sbaglia paga. Duramente. Da noi ancora no. Come mai? Questione di leggi sulla privacy, che limita profondamente l’utilizzo della tecnologia contro chi commette un crimine all’interno degli stadi. Abbastanza assurdo in un’epoca dominata dai social e dall’uso smodato della tecnologia, soprattutto quella video. Ma anche questione di impiantistica, perché se gli stadi fossero tutti di proprietà dei club sarebbe più facile anche per loro poter prendere provvedimenti.

In Premier League chi va allo stadio quasi non può alzarsi in piedi. Solo in curva viene concessa un po’ di libertà ai tifosi. E comunque al secondo richiamo da parte di uno steward si viene cacciati o ancor peggio segnalati, rischiando poi di non poter più entrare in un impianto nella sua vita, con pene anche penali di un certo peso. Per far sì che ciò accada anche in Italia serve l’intervento del Governo. Servono leggi ad hoc, perché come dice Abodi oggi “il tifoso della Serie A sta dando, in alcuni casi, messaggi negativi. Quando si fa un insulto razzista, sessista o legato al territorio non si è più tifosi ma delinquenti. Lo stadio deve essere il luogo per ridere e festeggiare, o piangere se la squadra va male, ma non per delinquere o essere violenti”.

Rimandare ancora non ha senso. Il vaso è colmo. “Bisogna intervenire immediatamente dove necessario ma anche tracciare la rotta di un progetto educativo che dalla scuola ripristini quali sono i principi morali con i quali si sta insieme e si vive in una società civile della quale lo sport è soltanto lo specchio più evidente. È ancora più grave che quello che succede, succede nel massimo campionato, in questo modo si corre il rischio di dare un cattivo esempio anche nella dimensione amatoriale”, ha sottolineato sempre Abodi. Il caso Mamady Cissè certifica le sue parole. Chissà se prima o poi non vedremo più casi come questo sui nostri campi e nei nostri stadi.

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