Uno dei lavori più difficili della storia è sempre stato quello del ct della Nazionale. Non bisogna andare a prendere le critiche ferocissime nei confronti di quelli che hanno fallito, ma basta andare a leggere ed ascoltare cosa si diceva di Enzo Bearzot prima dell’Argentina e della Spagna per capire che pazienza ci vuole.
Oggi questo compito tocca a Mancini, un allenatore che quasi dal nulla è riuscito a portare la Nazionale sul tetto d’Europa dopo 55 anni. Se però il mestiere di allenatore della Nazionale è difficile, Mancini è capitato in un periodo davvero drammatico, dove non solo è difficile costruire una squadra competitiva, ma è difficile costruire una squadra e basta.
La motivazione ideologica
I motivi sono davvero tanti. Se la prendiamo da un punto di vista “ideologico”, il calcio italiano ha voluto seguire un modello, senza capire che poteva servire anche altro. All’inizio degli anni ’10 si è affermato con tutta la sua novità il calcio spagnolo- guardiolano e da quel momento abbiamo cercato di costruire solo dei piccoli Xavi (magari).
Oggi ci ritroviamo una marea di fini dicitori di centrocampo (Tonali, Verratti, Jorginho, Pellegrini, Fagioli, Miretti) e praticamente nessun attaccante centrale dietro Immobile. Un errore di costruzione in prospettiva dei calciatori.
È mancata la competizione
Un altro motivo evidente riguarda la competitività dei campionati. Negli anni di dominio, assolutamente meritato, della Juve il campionato terminava a novembre e questo ha tolto competitività al campionato. Senza dover mai giocare partite davvero importanti, i calciatori italiani sono cresciuti molto meno rispetto al passato. Basta vedere anche il dominio del Bayern Monaco in Germania cosa ha combinato alla Nazionale tedesca.
La motivazione antropologica
Infine c’è una motivazione antropologica che ha ribadito anche Mancini in questi giorni. In conferenza stampa ha detto: “In Italia non gioca più nessuno per strada. Noi giocavamo 3-4 ore per strada e poi andavamo ad allenarci, oggi questo non accade più. Non è un caso se giocatori nascono ancora in quei paesi, come Uruguay, Argentina o Brasile, dove si gioca ancora molto per strada”.
Questa sembra la motivazione più debole, non solo perché i bambini quando vogliono farlo, giocano ovunque siano, ma anche perché il calcio degli altri, di quelli che vincono i Mondiali non si basa esclusivamente sul gioco per strada ma su talenti generazionali (e quello o ti capita oppure nulla da fare), ma soprattutto su una coltivazione del talento anche medio che noi ancora ci sogniamo. Ha molto più senso fare il paragone tra Camavinga che a 16 anni giocava nel Rennes e Pafundi che gioca in una squadra al penultimo posto nel Campionato Primavera. Il vero grande problema è proprio questo, una coltivazione del talento che si basa su vecchie regole (“Mandiamolo a crescere in serie B!”) e non si è mai aggiornato.
Foto: LaPresse
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