È già iniziata a parole la finale di Champions League, almeno per l’allenatore del Manchester City Pep Guardiola che appena dopo il triplice fischio della gara di ritorno contro il Real Madrid che ha permesso agli inglesi di staccare un biglietto per Istanbul ha cercato di togliersi i panni del favorito.
COMPLIMENTI VIVISSIMI
«Una finale contro una squadra italiana non è mai la miglior finale che si possa giocare. Ci faranno dei complimenti come spesso capita ma ci dovremo preparare mentalmente». Queste le parole di Guardiola, peraltro abituato ad incensare i rivali di turno. E anche questa volta non fa eccezione, già con oltre due settimane di anticipo.
RICORDI AMARI
Certamente nel tecnico catalano il ricordo del 2010 è una ferita ancora aperta: il Barcellona stellare eliminato in semifinale dalla squadra allora allenata da José Mourinho con tante recriminazioni tra episodi arbitrali ed eruzioni vulcaniche. Anche se con l’Inter il bilancio è complessivamente positivo (due vittorie, un pareggio e una sconfitta), il nerazzurro è legato inevitabilmente a quella doppia sfida.
TABÙ
L’eliminazione del Real Madrid di Carlo Ancelotti, però, è più di una mera rivincita per la semifinale dello scorso anno, quanto piuttosto lo sfatamento di un tabù che affonda le sue radici nel doppio confronto di qusi dieci anni fa (era il 2014) quando Guardiola allenava il Bayern Monaco.
Dopo il ko dell’andata contro i blancos del primo ciclo del tecnico emiliano a Madrid, il Bayern perse 4-0 anche a Monaco in una partita che lo stesso Guardiola disconoscerà, come svelato nel libro Herr Pep di Martí Perarnau: «Ho fatto cose che non sentivo».
SOMMA TEOLOGICA
Se quel Barcellona del 2010 non aveva ancora rappresentato la massima espressione del ciclo blaugrana dello stesso Guardiola, questa versione del Manchester City appare invece il compimento dei principi di gioco del catalano, la somma teologica del suo calcio, capace di ibridarsi con la cultura tedesca prima e inglese poi fino a raggiungere questo livello di fluidità e di organizzazione nel e del caos.
NUCLEO
La creazione costante di rombi (auspicabilmente per creare situazioni di quattro contro due) in tutte le zone di campo, la ricerca insistente del terzo uomo e la liquidità con cui il City occupa gli spazi per manipolare gli avversari unita alla riconquista immediata della palla e alla qualità individuale degli interpreti fanno dei Ctyzens una squadra difficilmente arginabile.
OVERTHINKING
Capace di grandi intuizioni e di rovinose cadute per letture sbagliate, il catalano è stato accusato di overthinking. Tradotto letteralmente significa “pensare troppo”, mentre calcisticamente si potrebbe ridurre la complessità del concetto come la richiesta e l’adozione di comportamenti tattici idealmente migliori per affrontare un avversario, ma non interiorizzati a sufficienza dai propri giocatori, incapaci poi di assolvere appieno ai propri compiti. Un po’ come accaduto nel ko contro il Lione del 2020 che costò l’accesso alla semifinale di Champions.
FEDE
Questa volta, invece, Guardiola ha avuto fede nel livello di assimilazione e di comprensione raggiunto dai propri calciatori. Così il Manchester City ha annichilito il Real Madrid in una partita senza storia con il 4-0 che fotografa anche il divario tattico visto in campo all’Etihad.
RAGIONE
È chiaro, dunque, che al netto della pretattica di Guardiola, i Cityzens appaiano i naturali favoriti della finale di Istanbul. A livello razionale appare un confronto senza storia, ma in Champions League si insinua spesso l’irrazionale, tanto da far nascere match inspiegabili ad una ragione che invece sembra porgere la terza Champions League a Guardiola, la prima lontano da Barcellona.
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