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‘Lazio 1974: grande e maledetta’, una nuova versione integrale per i 50 anni dello scudetto. Stefano De Grandis: “Una storia unica”

Il 12 maggio sarà un giorno indimenticabile per tutti i tifosi della Lazio. Quel giorno di 50 anni fa, il rigore di Giorgio Chinaglia contro il Foggia regalava ai biancocelesti di Tommaso Maestrelli il primo, storico scudetto della propria storia nel 1974. Per l’occasione Sky Sport riproporrà su Sky Sport Calcio alle 19.30 e su Sky Sport Uno alle 23.30, per poi essere messi a disposizione on demand su Sky e NOW, i tre episodi di ‘Lazio 1974: grande e maledetta” con una nuova versione integrale, prendendo il posto della versione originale messa in onda a inizio gennaio.

Tre puntate che si ripropongono di raccontare l’epopea di quella squadra, che presa in Serie B da Tommaso Maestrelli nel 1971 arrivò a vincere lo scudetto soltanto tre anni dopo. Anni di calcio storico, quasi eroico, con un gruppo di personalità contrastanti ma gestito perfettamente dal tecnico, che seppe tirare il meglio i propri giocatori. Una storia però passata attraverso colpi dolorosi successivi a quello scudetto, che ci hanno fatto salutare anzitempo lo stesso Maestrelli per un male incurabile e Luciano Re Cecconi in uno scherzo finito in tragedia che ancora oggi lascia tanti dubbi.

In occasione del cinquantenario, il documentario, andato in onda ad inizio del 2024 con i tre episodi ‘La Grandezza’, ‘Pistole e Palloni’ e ‘La Maledizione’ e prodotto in collaborazione con la S.S. Lazio che festeggerà proprio domenica l’evento, è stato arricchito con ulteriori interviste e nuovi contenuti. Abbiamo ripercorso un po’ del filmato e di quella Lazio assieme a colui che ha ideato e curato il progetto, Stefano De Grandis.

Ciao Stefano, grazie per l’intervista. Inizio con una domanda a bruciapelo: questa Lazio è più grande o più maledetta? 

“Probabilmente più maledetta per tutto quello che le è accaduto. Una serie di morti premature,  una squadra divertente ma che evapora nel giro di tre anni, è stata grande quanto inaspettata. Probabilmente non è tecnicamente un valore assoluto, ci sono state squadre più forti ma è stata una squadra rivoluzionaria, giocava un calcio all’olandese molto divertente e priva di punti di riferimento, per l’epoca era assai spettacolare. Una squadra che divertiva, opposta a quella che era il potere istituito del calcio delle squadre del nord.

Quale è stato il motore che ha spinto a voler raccontare questa storia?

“Questa è una storia unica. Una squadra underdog che vince lo scudetto arrivando dalla Serie B, con una società non ricca, sfiorando prima lo scudetto l’anno successivo alla risalita e poi trionfando. Non con investimenti folli, ma con una campagna acquisti azzeccata, facendo arrivare giocatori importanti. Era un gruppo particolare, dai grandi contenuti emotivi, con Chinaglia come leader e Maestrelli che sapeva cogliere le caratteristiche dei suoi giocatori, figli di una società degli anni ’70 che abbiamo voluto rappresentare in questo documentario. Una squadra ricca di caratteristiche particolari, litigiosa all’interno ma unitissima all’interno del campo. Addirittura si picchiavano negli allenamenti, ma poi vincevano le partite insieme.

Interessante il taglio che si è voluto dare al documentario. Non da storytelling come in voga negli ultimi anni, ma con le parole di protagonisti degli eventi e di chi ha vissuto, in prima persona o lateralmente, quei tempi.

“Una cosa che fa parte del mio carattere, nonostante sia andato spesso in onda non è la cosa principale di mettere la faccia. Poi credo più che altro che la parola debbano averla i protagonisti: noi siamo i tramiti, non l’attore principale. La scelta è stata quella di dare parola a loro, e si può notare anche come non ci sia un voiceover, una traccia scritta. Tutto viene raccontato secondo le parole di chi era presente, non c’è nemmeno una riga di testo, che intuisci con le risposte, con i titoli dei giornali, le immagini.

Anche perché non si parla solo di una squadra, ma anche di un periodo particolare della storia italiana, di poco precedente agli anni di piombo. 

“Erano anni turbolenti anche se la lotta politica non si era ancora incendiata. C’era però una certa suddivisione tra destra e sinistra, la Lazio veniva interpretata una squadra di destra ma nella rosa c’erano giocatori con differenti ideologie, da destra come Martini, poi in Alleanza Nazionale, a molti che erano semplicemente ‘agnostici’ o qualche democristiano come Maestrelli o qualcuno di sinistra come Frustalupi. Ma siccome questa era una squadra aggressiva, che faceva scazzottate per la strada e sembrava nella prepotenza espressa suggerire un comportamento autoritario poteva apparire una squadra di destra, addirittura Pasolini la etichettò come una squadra ‘fascista’. Ma li conosco tutti: al massimo erano un paio ad essere schierati.

Quella era una squadra composta da molte anime, tanto differenti, ma che però in ogni partita rimaneva insieme, in un unico blocco. 

Da una parte Chinaglia, un figlio di migranti, una persona buona che aveva però bisogno di mostrarsi come capo, e dunque decideva con chi giocare, dire a tutti che era il più forte. Dall’altra parte Martini, una personalità molto forte, che non amava chi decidesse per lui. Martini era amico di Re Cecconi, chi non apprezzava il modo di fare di Chinaglia giocava nella loro squadra in allenamento, gli amici di Chinaglia e Wilson giocavano con loro. Nascevano queste due fazioni, che si allenano e si spogliano in due spogliatoi differenti, tanto che le partitelle di allenamento non finivano mai perché volevano vincere tutti, magari si picchiavano anche con rischio di infortuni. Ma in verità queste rivalità non affioravano in partita, così scaricavano la tensione.

Impossibile non parlare di Tommaso Maestrelli. Nel documentario emergono bei sentimenti nei suoi confronti da parte di tutti. E lui è stato anche un po’ antesignano dell’allenatore ‘psicologo’.

Avevo dodici anni ed ero amico dei fratelli Maestrelli, che avevano un anno e mezzo in meno di me. Li frequentavo, conoscevo la persona Maestrelli: mite, affabile, disponibile, il contrario di quanto potresti pensare di allenatori che normalmente, per discorsi di concentrazione o posizione, sono portati ad essere poco disponibili. Dovendo tenere insieme delle personalità molto forti, doveva in qualche modo fare da psicologo. Ad esempio, con Chinaglia lui faceva finta di dargli ragione, poi faceva di testa sua. Ma nonostante tutto Long John era legatissimo a lui: dormiva a casa sua, mangiava da lui, un rapporto particolare. Tanto è vero che c’è un unicum: nella cappella Maestrelli, oltre a Tommaso, riposano anche le salme di Chinaglia e Wilson.

Pensi sia possibile rivedere in futuro una storia del genere?

Credo di no, ma ogni tanto qualche eccezione affiora, tipo il Leicester. Ma anche quella storia è stata differente: quella squadra aveva comunque giocatori che militavano nelle proprie Nazionali, come Mahrez ad esempio. Quella Lazio era invece in buona parte l’ossatura della B, in porta c’era Pulici che quando venne acquistato dal Novara era uno degli estremi difensori più battuti della serie cadetta, Garlaschelli non lo conosceva nessuno. Erano tanti giocatori di B che arrivavano attorno a Frustalupi, regista di livello che vinse uno scudetto nell’Inter da riserva di Corso, Chinaglia e giocatori importanti come Re Cecconi, giocatore da top team. Ma se la rivedo giocare oggi, io che ne ero follemente innamorato, mi rendo conto che è una squadra che corre, con cuore e tanto coraggio, ma che non è raffinata con i piedi, che macina gli avversari perché attaccava a testa bassa sempre, contro chiunque, al di là del risultato. Ma quella Lazio era rivoluzionaria poiché prima di Sacchi aveva interpretato un calcio offensivo.

Al giorno d’oggi, quell’amore e affetto che c’è verso questa squadra, può vedersi nei ragazzi di oggi?

Credo di sì. Il calcio è comunque magia, ai tempi non avevi l’opportunità di vedere così tanto calcio. Ma il trasporto di un bambino, per personaggi che vedi sempre, porterà i bambini a provare un certo affetto. Ma in maniera diversa: quello era un calcio più umano. Più alla portata di tutti, rispetto a quello di oggi più infarcito di star.

Cosa ti rimane nell’elaborazione di questo documentario, con domenica che saranno 50 anni da quello scudetto?

Il riscontro della docuserie è stato fortissimo, gente che non era ancora nata si è commossa vedendola. Mi sono commosso anche io, perché mi ha ricordato me stesso a dodici anni, mio padre; per me quella squadra era come composta da dei fratelli maggiori, quasi degli idoli. Quei ragazzi li vedevo come i ‘buoni’, anche se magari così buoni non lo erano. E poi, quando ho visto la commozione dei figli, che siano ancora presi da quella storia, ammetto che mi sciolgo un po’. E poi Massimo Maestrelli mi diceva “Proprio perché quella storia è andata in quel modo, permette che sia eterna”, vedendo il lato positivo di una storia drammatica.

 

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